Si dice che i Focei fossero venuti dal mare che tuttora bagna la terra di Ascea, già Velia, già Elea. La città fu fondata nella seconda metà del VI secolo a.C., da esuli in fuga dalla Ionia per sfuggire alla pressione militare persiana. A Elea, nel V secolo a. C. giunse anche Parmenide (515 a.C./510 a.C., 544 a.C./541 a.C. – 450 a.C.).
Le cose non possono avere origine dal nulla. Parmenide lo sapeva bene ed egli, peraltro, come tutti. Eppure cominciavano a circolare strambe dicerie di coloro che sostenevano che l’essere avesse avuto origine dal non essere, e cioè il nulla. In realtà, nessuno - come anticipato - si era spinto fino a tanto. E nemmeno Aristotele, successivamente, avrebbe osato questo. E allora, occorreva mettere un primo punto fermo e stroncare queste false dicerie.
Il non essere non è e non può essere. Che sia stato un dio o il caso, è indubbio che l’essere - “e-vento” (o fatto che si è già manifestato) a causa di un dio o del caso (fatto che si è già manifestato, viceversa senza una causa definita e identificabile), e dunque quale che sia -è. Pertanto, l’essere è e non può non essere.
Ricordate il gioco perenne di Artemide, di preda e predatore, sul quale la dea veglia per sempre? Analogamente, l’essere può diventare sia preda che predatore della possibilità che sia; ma, ancor prima che sia operata la distinzione, Parmenide afferma perentoriamente che l’essere è quella stessa possibilità che sia. Ben altro che la distinzione che opererà Aristotele tra “potenza” e “atto”; distinzione, che sembra proprio lasci aperta la possibilità che una cosa sia o non sia e quindi, in generale, che l’essere sia o non sia. Secondo un metodo che, dopo l’apprensione necessaria delle origini, ri-conduce l’atto al “mero arbitrio”, o facoltà di operare e giudicare secondo una propria esclusiva volontà, di un dio (causale) o della natura (quale espressione generica del “caso”). Niente a che vedere con la possibilità di un diritto-dovere reciproco, in base al quale, secondo la testimonianza della dea della Giustizia di Parmenide, la legge (dovremmo aggiungere, quella divina) è uguale per tutti.
Infatti, in ambito di discorso logico, ammettere la possibilità che una cosa (ente) sia o non sia è comunque una scelta gravida di conseguenze. A tale proposito, basti considerare che, secondo la tradizione, Aristotele cerca di risolvere il problema ontologico di conciliare l’essere “di” Parmenide col divenire “di” Eraclito, facendo dell’ente un sinolo indivisibile di materia e forma. Secondo Aristotele, la materia possiede un suo modo specifico di evolversi, ha in sé una possibilità che essa tende a mettere in atto. Ogni mutamento della natura è quindi un passaggio dalla potenza alla realtà, in virtù di un’entelechia, una ragione interna che struttura e fa evolvere ogni organismo secondo leggi sue proprie. Che derivano, quindi, da un dio o dalla natura dell’organismo stesso.
Facendo un esempio, che serva piuttosto a chiarire, Emanuele Severino in modo appropriato dice tuttavia che “ciò che è in potenza è in potenza gli opposti”. Ovvero, prendendo in prestito le stesse parole di Severino, trattandosi del rapporto a esempio tra l’embrione (potenza) e l’uomo (atto), “questo vuol dire che, se l’embrione può diventare un uomo in atto, allora, proprio perché lo può (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non uomo, cioè qualcosa che uomo non è …”. Non esattamente, come nel detto di Aristotele, secondo il quale viceversa ogni mutamento della natura sarebbe quindi un passaggio dalla potenza alla realtà, in virtù di un’entelechia, una ragione interna che strutturerebbe e farebbe evolvere ogni organismo secondo leggi sue proprie.
Diciamo allora che anche per Aristotele, permarrebbe il problema “originario” che è questo o quello della “determinazione” della “prima distinzione”; che, nel prosieguo dell’esperienza condotta da Lucy, costituisce il problema “iniziale”, relativo a ogni inizio, della determinazione del fato - antico o moderno che sia come suggerisce il titolo di un’altra opera di de Santillana (Fato antico e fato moderno) -, dal latino fari, verbo che significa "dire", "parlare" e quindi fatum, participio passato neutro, vuol dire "ciò che è detto" o "la parola detta”.
Curioso de-stino quindi, il nostro; questo o quello di affidarsi alla parola “detta”. Di un dio caso o natura, che sia.
[Angelo Giubileo]